Ignazio Marino: “Provo una profonda tristezza, al Pd serve una rottura totale”

L’ex sindaco di Roma: «I capibastone sono gli stessi che mi cacciarono»

È rattristato Ignazio Marino per l’ennesimo caso dai contorni imbarazzanti che coinvolge il Pd romano, lo stesso che provocò il suo allontanamento dalla poltrona di sindaco nel 2015 dopo due soli anni di mandato. Rattristato, non sorpreso. I capibastone sono ancora tutti lì, afferma.

Cosa ha pensato vedendo il video in cui Albino Ruberti si esprime come non ci si aspetterebbe dal capo di gabinetto del comune di Roma?
«Ho provato una profonda tristezza. Ho pensato all’articolo 54 della Costituzione che chiede «disciplina e onore» nell’adempimento di funzioni pubbliche. Spero che la violenza verbale sia giustificabile da qualche bicchiere in più e non da un’attitudine».

Ha mai conosciuto Ruberti?
«Solo come responsabile di Zetema, l’azienda del Comune di Roma che si occupa degli aspetti culturali e spesso si distingue per l’eccellenza dei propri prodotti».

Questa lite le ha ricordato qualche momento dell’atmosfera vissuta durante il suo mandato da sindaco?
«Il mio maestro di chirurgia, Thomas Starzl, mi insegnò a coltivare una memoria selettiva. Riesco a dimenticare tutto ciò che è spiacevole. Pensi che di molti personaggi della cosiddetta classe politica romana non ricordo né i nomi né i ruoli. D’altra parte non c’erano e non ci sono molti Wiston Churchill, anche se molti ritenevano e ritengono di avere menti politiche raffinate».


Da quando lei è andato via il Pd romano avrebbe dovuto essere rifondato. Ha notato segnali di cambiamento?
«Dicevo che non ricordo, ma qualcosa rammento. Mi sembra che tutti i capibastone di dieci anni fa siano ancora lì a Roma con i loro gregari. I primi sempre più concentrati sul loro potere personale e i gregari sempre più divisi nelle loro correnti utili solo come comitati elettorali e dannosi per i cittadini».

Pensa che il Pd romano sia ancora una forza che abbia dentro di sé una parte opaca?
«I processi che in origine vennero definiti come “Mafia Capitale” hanno dimostrato frequentazioni assidue tra leader del Pd romano e diversi esponenti della malavita locale. Immagino che tali frequentazioni fossero assai più estese di quelle a carattere criminale sanzionate dalla giustizia. Diversi altri leader, pur non commettendo reati, conoscevano e comunicavano con quegli ambienti. Le persone più vicine a me, negli anni da sindaco, non avevano quel tipo di frequentazioni, e non era un caso. Il motivo era che, a differenza di diversi leader del Pd, eravamo incompatibili con quel tipo di ambiente. E probabilmente anche per questo, come sostennero, tra gli altri, Matteo Renzi e Matteo Orfini, eravamo inaffidabili».


Qual è la strategia migliore da seguire per affrontare il contesto in cui si trova a operare un sindaco a Roma? Quella dei 5 Stelle di tenersi fuori da tutto? Rompere come fece lei?
«La strategia migliore è quella di una rottura totale. Assai più radicale di quella che io misi in atto. Sbagliai profondamente ad ascoltare i partiti e a non affondare lo scontro in profondità cercando solo il sostegno degli elettori. Dopo gli arresti del dicembre 2014 avrei dovuto strappare la tessera del Pd, dimettermi e ricandidarmi senza il Pd, come saggiamente mi suggerì un politico per bene, un vero signore che conosce la gentilezza e l’onestà, Luigi Nieri, allora mio vicesindaco».


Che consiglio darebbe a Gualtieri?
«Roberto Gualtieri è un politico maturo. Prima delle sue elezioni ebbe la cortesia di chiedere la mia opinione su diversi temi della Capitale, dai rifiuti, ai trasporti, alla cultura. Io gli comunicai con sincerità il mio pensiero. Più recentemente ci siamo incontrati per un evento culturale promosso dalla mia università statunitense e mi ha detto di aver constatato quanto avessi ragione. Non ha bisogno dei miei consigli ma credo che debba interrogarsi su quanta rottura con il passato sia necessaria per restituire a Roma la collocazione internazionale che merita ».

Che cosa pensa della campagna elettorale del Pd?
«Sono deluso dal fatto che anche Enrico Letta, come prima di lui Matteo Renzi, abbia ignorato lo statuto del Pd: recita che le primarie sono indispensabili per scegliere i candidati. Anche questa volta i candidati sono stati scelti nelle stanze chiuse e non all’aria aperta. E, addirittura, ha candidato i leader più importanti in collegi blindati dove non devono conquistarsi i voti».—

Articolo originale su La Stampa del 20 Agosto 2022

Autore dell'articolo: Ignazio Marino