L’insulto di Roma ai più poveri

In questi giorni due notizie relative a Roma mi hanno molto rattristato.

Entrambe riguardano gli immobili di Roma: quelli messi a disposizione delle persone senza casa e quelli di proprietà del Comune.

Leggendo questo articolo https://www.romatoday.it/attualita/stop-buono-casa-storia-maurizio.html ho ripensato al pianto di una bambina nel 2014 e mi sono vergognato per questo ulteriore insulto di Roma ai più poveri.

A Roma, a fronte dell’80% della popolazione che è proprietaria di casa vi è un 20% che, vede questa opportunità allontanarsi sempre di più. Una stima del CRESME, il centro di ricerca che studia il settore delle costruzioni, ha individuato a Roma quasi quarantamila famiglie che versano in una condizione di drammatica sofferenza abitativa. Circa duemila nuclei familiari hanno trovato negli anni ricovero presso i cosiddetti residence, strutture ereditate dall’amministrazione Rutelli, che ospitano a Roma persone in stato di emergenza abitativa.

Studiando questo fatto mi ero reso conto, già prima della mia elezione, che dagli anni ’90 per risolvere l’emergenza abitativa di una famiglia rimasta improvvisamente senza casa il Comune di Roma affittava edifici dai privati e che il costo di tali affitti per cinquanta metri quadrati fatiscenti a Pietralata, in contesti dove degrado e disagio convivono, arrivava a sfiorare i quattromila euro al mese. In altre parole con i soldi del Comune, i soldi delle tasse, dagli anni ’90 si pagavano a ricchi imprenditori, per appartamenti fatiscenti da destinare ai poveri, affitti superiori a un appartamento con affaccio sulla scalinata di piazza di Spagna.

Chi ci guadagnava? I poveri o i ricchi? Dopo il mio insediamento il quadro conoscitivo complessivo che si andò delineando fu sconcertante. Il Comune affittava trentaquattro edifici chiamati “residence” per una spesa complessiva di quarantadue milioni di euro l’anno. Un ottimo affare per pochi privilegiati che ne erano grati alla politica, mentre nessuno si accorgeva delle condizioni in cui vivevano i disperati accolti, si fa per dire, dal Comune.

Uno degli shock più devastanti per le differenze tra una Roma sempre più ricca e una sempre più povera lo ebbi quando andai al Salam Palace nel quartiere della Romanina. Il Salam Palace è un palazzo di nove piani di vetro e cemento, in passato sede della seconda università romana di Tor Vergata. Dal 2006 vi abitavano, in condizioni drammatiche, oltre milleduecentocinquanta persone, tra rifugiati politici e richiedenti asilo. Eritrei, somali, etiopi e sudanesi. Tra di loro moltissimi bambini. Ogni famiglia occupava una stanza. Siccome erano uffici c’è un solo bagno a ogni piano e in  molti di essi ci sono tende al posto delle porte e l’urina crea una pellicola appiccicosa sul pavimento.

In quel luogo, in cui noi italiani permettiamo che scompaiano speranze e sogni di donne, uomini e bambini, in un grande spazio comune, alcuni eritrei stavano cucinando del pane profumato simile alle nostre piadine e lo riempivano di verdure speziate. Vollero per forza dividerlo con me. Io, imbarazzato perché mi sentivo in colpa per le loro condizioni di vita, in realtà fui felice di mangiare con loro.

Affermai subito che avremmo sostituito questo sperpero di denaro pubblico con un buono casa di circa ottocento euro per famiglia. Con gli stessi soldi avremmo aiutato il triplo delle persone e dato loro la possibilità di scegliersi per conto proprio il luogo dove affittare l’appartamento: una strategia che evitava di creare dei ghetti dove fossero concentrati i più poveri, come era accaduto sino al 2013. Fu uno dei primi atti concreti che realizzai dopo l’elezione.

Tuttavia, la resistenza al cambiamento era enorme e ci volle la determinazione dell’assessore Daniele Ozzimo prima e Francesca Danese poi per aiutarmi a raggiungere l’obiettivo. Qualcuno cercava di convincere chi viveva in quei decrepiti appartamenti, pagati così cari, in modo da arricchire i proprietari, di non credere alle mie parole e non lasciare i cosiddetti residence.

Un giorno una bambina di una prima elementare scoppiò a piangere mentre io parlavo con la classe. Mi avvicinai e faticai a farmi dire il suo nome perché era così scossa che alzò un quaderno dinanzi al volto per evitare persino il contatto pupillare con me. Alla fine, singhiozzando, mi raccontò che il suo papà le aveva detto che io volevo cacciarli dal residence. L’edificio era lì vicino e volli andarci subito per parlare con chi ci viveva. Dopo un lungo colloquio convinsi i genitori che non avremmo imbrogliato nessuno e che nessuno sarebbe stato allontanato se non dopo aver individuato un alloggio migliore.

Non potrò mai dimenticare il giorno in cui, in Campidoglio, Francesca Danese consegnò alle prime famiglie le chiavi dei nuovi appartamenti e la gioia di un bimbo che aveva finalmente una stanza sua e una cucina senza l’acqua che trasudasse dalle pareti. Francesca, da assessora, ha sempre messo gli interessi dei più deboli dinanzi a tutto. E con lei, nonostante le resistenze durissime che trovammo, riuscimmo a completare la rivoluzione di offrire una casa vera a chi si trovasse nei residence con l’ultimo atto di Giunta la sera del 30 ottobre 2015, mentre chi si preparava a farmi cadere, invece di preoccuparsi di Roma, affilava i pugnali, prendendo un appuntamento dal notaio …

La seconda vicenda riguarda questo annuncio: https://roma.repubblica.it/cronaca/2023/04/02/news/abusivopoli_inchiesta_immobili_comune_roma-394563738/ 

Presentato come una novità storica non è altro che la riesumazione di quanto feci nel 2014-2015. La mia Giunta per la prima volta nella storia della Capitale realizzò una Carta della città pubblica: un censimento di edifici e aree pubbliche comunali, regionali, provinciali e statali: 14.000 ettari di proprietà di Roma e 16.000 ettari di altri soggetti pubblici. Parliamo di un quarto dell’intero territorio. Un patrimonio sterminato che comprende complessivamente circa 60.000 beni e che, per ovvie ragioni, è molto difficile da gestire senza una metodologia.

Il nostro metodo di lavoro fece emergere dati sconvolgenti. Nella grande maggioranza dei casi gli inquilini sono altri istituzioni o enti pubblici di vario genere, come ambasciate, centri di ricerca, aziende sanitarie, comunità religiose e via di seguito. In questi casi i canoni irrisori, benché regolari dal punto di vista amministrativo, sono giustificati da accordi internazionali o da rapporti tra diverse amministrazioni nazionali.

Ma a volte si esagera, penso ad esempio al caso del palazzo compreso tra il foro di Traiano e quello di Augusto, dato in concessione fin dal 1946 all’Ordine dei Cavalieri di Malta, con una splendida balconata che si affaccia sull’area archeologica centrale, il Campidoglio, l’altare della Patria e il Colosseo. L’Ordine vi svolge attività di rappresentanza e di ufficio, anche importanti per il grande apporto nel settore della protezione civile. Forse, senza di loro, il palazzo sarebbe andato incontro a degrado.

Ciò non toglie che nessuno dei miei predecessori si sia preoccupato per sessant’anni di riadeguare un canone stabilito appena dopo la Seconda Guerra Mondale in ventiquattro mila lire l’anno e oggi semplicemente convertito in euro: dodici euro, un euro al mese. Un euro al mese di affitto per uno dei più bei palazzi del pianeta.

Sono numerosi gli enti, le istituzioni, i privati e le associazioni che trovammo affittati a canoni risibili. Tra l’altro, a fronte di canoni incredibilmente bassi, molti erano anche morosi come l’A.S. Centro Ippico Galoppatoio Villa Borghese che non pagava da un anno i 264 Euro di canone mensile. Meno di trecento Euro al mese per uno spazio al centro di Roma, a due passi da Via Veneto, compreso tra le Mura Aureliane e l’ingresso a Villa Borghese. Altri spazi di proprietà del Comune, affittati a 42.000 Euro all’anno al Circolo Canottieri Aniene uno dei circoli più esclusivi della Capitale che dai 1.061 soci incassava 25.000 euro d’iscrizione (26 milioni di Euro una tantum), più 2.200 euro all’anno (2,3 milioni di Euro).

Ora il quotidiano Repubblica e il Comune di Roma hanno riesumato i dati che raccogliemmo nel 2014. Quindi significa che quasi dieci anni dopo tutto è rimasto uguale.

Autore dell'articolo: Ignazio Marino